venerdì 15 maggio 2020

Articolo, Crisi mondiale: alcuni concetti e proposte di fondo per un rinascimento socio-economico

Crisi mondiale: alcuni concetti e proposte di fondo per un rinascimento socio-economico
Francesco Vigliarolo



La crisi mondiale legata alla pandemia del CVD19 ci ha senza dubbio interpellato in tutti i campi della vita umana. Uno di questi è quello economico. Molti hanno preso coscienza che il modello economico dominante è ormai inadeguato e c'è bisogno, più che mai, di modelli economici sostenibili con l’ambiente, con le relazioni sociali ma, prima di tutto, con quello “che siamo”, ciò che definisco la nostra “ragione ontologica”.

Per capire tale affermazione bisogna ricordare che per molti secoli l’economia è stata orientata a soddisfare gli interessi individuali attraverso la logica matematica basata nella legge della domanda e dell’offerta che ha dato vita al positivismo economico che ha lasciato fuori dai sistemi qualsiasi domanda con implicazioni trascendentali e soggettive, come per esempio: che tipo di società vogliamo?

Di fatto, come osservava il padre del più famoso Keynes, già nel 1891, preoccupato degli effetti che generava l’economia classica e della crisi delle scienze in generale fagocitate dal positivismo che avanzava (si legga anche la “Crisi delle scienze europee” di Husserl), distingueva appunto l’economia normativa da quella positiva; quest’ultima si occupa di studiare il sistema “per ciò che è” senza importarsi del dove esso ci porta, in altre parole, si occupa del far quadrare i conti senza importare se questo produce miseria o benessere, se come si cresce sia sostenibile legato alle industrie di manufatture utili alla vita o alle industrie delle armi legate alla morte. Non si valuta più l’orizzonte a cui si tende, ma solo se si è capaci di mantenere il rapporto deficit-PIL al 3%, tradotto in una formula dei nostri tempi prendendo il caso dell’Unione Europea.

Tutto ciò, negli anni, ha portato ad un’appiattimento del pensiero in economia dove priorità umane, sociali, ambientali, vocazioni, passioni, valori …, come diceva Hirschman (1979), sono state trasformate in interessi individuali, che secondo la scuola dominante sono le uniche forze che devono muovere l’economia perchè ciò che conta è il mercato. Tutto è trasformato in valore commerciale, anche il valore del lavoro che per i classici era inizialmente generatore di ricchezza, è sempre più a rischio a causa delle leggi di un mercato senza leggi; il mercato è l’unico luogo in cui deve svoglersi l’azione economica poiché, sempre per i classici, l'uomo è egoista ed orientato allo scambio e non un essere sociale, come molto tempo prima aveva detto, invece, Aristotele che insieme a Senofonte avevano posto le basi del concetto di economia come una branca dell'etica (distinguendola giustamente dalla Crematistica che, invece, persegue interessi di arricchimento personale). La società diviene, così, un sottoinsieme del mercato che tende solo ad accumulare ricchezze individuali. Perfino la riccehzza delle Nazioni si ottiene attraverso la ricchezza che conseguono i singoli cittadini, non esiste una visione e un bene comune, solo un insieme di individualità definito appunto bene comune attraverso la fede smisurata nella famosa mano invisibile (che ahimè non si vede nella realtà). E i problemi di questo modello sono sotto gli occhi di tutti (si stima che l'1% possederà a breve il 99% delle risorse del Pianeta). L’imperativo crescere, crescere, crescere ha violentato e continua a violentare interi Paesi, anche davanti a una crisi come quella che abbiamo vissuto in questo momento epocale; fermarsi a tempo in alcune aree fortemente industrializzate è stato impossibile. I profitti vengono anche prima della vita umana. Viviamo ormai economie di morte. Le contaminazioni ambientali sono solo uno dei tanti problemi; nel mondo muoiono all’anno per gli effetti dell’inquinamento ambientale 7 milioni di persone, 700.000 in Europa e 70.000 in Italia.  

La forza lavoro sotto attacco
A tutto ciò, si aggiunge che la forza lavoro è sempre più erosa di fronte alla circolazione dei capitali nei mercati finanziari internazionali che rispondono solo all’imperativo di grandi profitti comprando quote azionarie senza avere neppure più una relazione con la produzione. Nascono imprese matrioska come scatole di azioni su azioni che indeboliscono permanentemente la produzione reale e la forza lavoro. In questo modo, dagli anni 1970 si afferma sempre più il ruolo della finanza sulla produzione. La finanziarizzazione economica è ormai un fatto e influenza in modo grave la vita delle popolazioni di tutto il mondo. Si stima che il 95% dei valori finanziari non abbia relazione con i beni e servizi scambiati senza pensare che il rimanente 5% è dovuto alla produzione di armi o beni e servizi assolutamente insostenibili con l'ambiente e la società, rispondono solo alle leggi di mercato (si legga anche l'affermarsi di beni con sempre meno durabilità). 
Le crisi finanziarie sono cosi una prassi e oggi significano anche crisi alimentarie e di aumento di sacche di disoccupazione crescente anche nei cosiddetti Paesi industrializzati. Il lavoro è ormai un elemento marginale. Ma il lavoro, che è per eccellenza il principale strumento di trasformazione della nostra materialità per poter vivere, ha un valore ontologico che non può essere mercificato, ma promosso, valorizzato, tutelato. Per Hegel è il vero capitale economico di un Paese quando unito a quella sapienza tipica di ogni Nazione che si acquisisce negli anni. Perché senza lavoro non possiamo essere. Ovvero, non abbiamo le condizioni per poter sviluppare le condizioni della vita e, per tanto, non si può trattare come merce ma solo e, prima di tutto, con un valore ontologico. Altrimenti vendiamo noi stessi, perpetriamo l’atto di implosione più grande della nostra storia umana. Forse è per questo che Papa Francesco propone un salario universale, perché il lavoro è qualcosa di sacro su cui si fonda tutta l’organizzazione della vita umana, e lasciarlo agli interessi individuali e alle leggi del mercato sarebbe minare la stessa vita dell’Umanità.

Di fatto, con la globalizzazione economica, da anni ormai si combatte in tutto il mondo la battaglia tra maggiore circolazione di capitale e lavoro, in cui nell’epoca del capitalismo finanziario l'alta finanza cerca di relegarlo a un ruolo marginale. Le riforme che si sono fatte in Italia, Francia, anche mascherate dalla sinistra, e in molte parti del mondo lo dimostrano. Si combatte la battaglia tra questo e tra chi vuole meno tutele, maggiore flessibilità per permettere al capitale di circolare sempre di più, di chi vuole spostare facilmente capitali da un'impresa all'altra perché più redditizie, lasciando in ginocchio interi Paesi senza più alcuna tutela. Si va all’estero per pagarlo meno e aumentare i profitti, ormai è un costo da ridurre il più possibile ma ridurlo significa aver messo a rischio la nostra ragione ontologica dove pochi accumulano, accumulano e accumulano immensi capitali finanziari mentre tantissimi non hanno più neppure le necessarie per vivere. Otto gruppi economici controllano le sorti del mondo. In questo modo, si compra tutto, anche la sovranità politica ormai non ha più peso. La democrazia è a rischio.

Questa battaglia, forse, inizia per qualcuno dai tempi della rivoluzione industriale, quando il lavoro e il capitale per Hobsbawn (2010) prendono cammini differenti, e nell’epoca del capitalismo finanziario oggi è sempre più a rischio a causa di un’economia senza anima che costruisce immense ricchezze nominali nei mercati finanziari ma non riesce a rispondere ai bisogni delle popolazioni locali. Cresce la rendita finanziaria, diminuisce il valore medio della forza lavoro in tutto il mondo, sempre più vituperato, e si è sempre più incapaci di tutelare diritti essenziali come alimentazione, educazione, salute, ecc..; il fenomeno della crescita economica che va di pari passo con la perdita del valore del lavoro lo testimonia (quello che in igliese è conosciuto come jobless-growth).

L'esigenza di una conversione radicale
Ma nonostante molte erano le denunce di numerosi intellettuali, economisti, sociologi e cittadini a questo modello di sviluppo insostenibile, come lo definiva Perna (1994), si pensava andare avanti cosi fino alla fine dei tempi, se la crisi attuale non avesse fatto venire allo scoperto a tutti i nodi di questo sistema; un sistema il cui interesse era solo riprodursi ignorando l’identità umana e ambientale, quella che Polanyi (1944) chiamava la sostanza naturale e umana di una società che non può essere mercificata. E proprio oggi quando il lavoro è ancora più a rischio, migliaia di posti di lavoro si stanno perdendo in tutto il mondo, la crisi ci mette davanti agli occhi anche una grande opportunità, quella di convertire questa economia che ci ha portato quasi alla distruzione, al baratro. C'è bisogno di una conversione profonda e radicale. Una conversione che ci faccia transitare dai mercati finanziari al territorio locale, dagli interessi individuali al bene comune, dai tempi di morte delle grandi imprese matrioska ai tempi di vita delle piccole e medie imprese legate al territorio in maniera sostenibile, dai beni commerciali ai beni ontologici, dai tempi di stress ai tempi di una ritrovata armonia con l'ambiente e la società, dal capitale al lavoro, dall'accumulazione all'investimento nei territori. Perché ricordiamo sempre che un’impresa nasce, vive e si sviluppa in un contesto territoriale, è alimentata da relazioni con gli altri e con l'ambiente circostante, si alimenta per i suoi beni e servizi venduti a individui che fanno parte di una comunità. È soggetta alle norme giuridiche nazionali e internazionali nell'ambito di un ordine politico e sociale che la definisce e la supera. È composta da lavoratori che con la loro storia umana e sociale vivono e costruiscono nella loro dimensione biografica una visione della vita in maniera intersoggettiva permanentemente. Per tale motivo è sempre e solamente un soggetto collettivo e non puo essere mai ridotta a un interesse individuale. 


La deurbanizzazione
In tale scenario, potrebbe venirci in aiuto l’economia regionale e la geografia economica. A causa dei modelli incentrarti sulla crescita quantitativa, le città si sono trasformate in centri dormitorio utili alla circolazione del capitale, perdendo la loro capacità di essere, prima di tutto, centri di socializzazione. Centri che esprimano e costruiscano in maniera intersoggettiva una visione della vita, la costruzione di quelle prassi, costumi e ragion pratica (pratiche sociali) che permettano la vita comunitaria per tutti i loro cittadini e non solo per pochi. Infatti, in molti casi, tale urbanizzazione è andata di pari passo con disuguaglianze estreme, si pensi per esemplio alle agglomerazioni urbane marginali dell’America Latina come le famose favelas in Brasile, le villas miserias in Argentina, ecc.. che da quando sono apparese hanno un ritmo di crescita costante ed esponenziale. Per tutto questo, oggi più che mai, potremmo ripartire anche e fondamentalmente da nuovi modelli di città, da una nuova urbanizzazione e, forse, è doveroso parlare di “de-urbanizzaione”.

Riproponiamo le campagne come luoghi di nuovi modelli di habitat, appropriamoci di modelli economici ciclici, che riprendono un concetto vecchio che risale ai fisiocrati ma uniamolo con quello della sostenibilità ambientale e sociale. Ovvero sviluppiamo beni e servizi che servano alla comunità il cui valore si fondi sulla produzione e non nulla commercializzazione. Costruiamo in questo modo “bene comune” dalla relazione diretta tra terra, lavoro e comunità in permanente evoluzione. In questo contesto, lo Stato forse è chiamato ad occuparsi maggiormente dei beni pubblici, tra i quali migliorare quelle infrastrutture permettendo di abbattere definitivamente le barriere dell’isolamente e creare una perfetta comunicazione tra centri e periferie. Si pensi ai sud del mondo. E un ruolo strategico lo giocano anche le nuove tecnologie, che se non usate più solo per ampliare mercati fagocitati dalla vecchia logica economica individualista, o per svegliare istinti repressi da un uomo sempre più abrutito, servono per unire le persone, scambiare idee, fare comunità.

Forse, le grandi imprese che gestiscono le sorti del mondo perderanno un po’ di profitti ma altri ne avranno un poco di più perchè non omologati da un'offerta di beni di poche marche. Tutto cio permette di costruire forse una produzione piu pluralista che parteciperà anche dei suoi benefici; e, forse ancora, siamo chiamati tutti a rinunciare a qualcosa per poter rimettere al centro il “bene comune”, frutto delle relazioni reciproche che si costruiscono ogni giorno che è l’unica condizione che ci tiene tutti insieme.

La domanda di diritti
Ma attenzione a confondere la domanda di consumi con “la domanda diritti” (ragione ontologica). Questa dipende dalla capacità di rispondere alle priorità della vita e ha bisogno di un “patto sociale” tra gli attori (di una meso-economia) in permanente evoluzione, ma prima di tutto di una società attenta, di un’alto grado di coscienza sociale rispetto alle cose che sono importanti. Non facciamoci appiattire dal pensiero positivista ma attribuiamo significato al mondo che ci circonda e, prima di tutto, ai beni e servizi il cui valore non può essere defnito solo dal mercato perchè dietro di loro c’è sempre una relazione con il soggetto attraverso cui si definisce un’idea, un concetto che va interpretato in termini di funzione che svolgono e, prima di tutto, di visione del mondo che generano. Non è lo stesso crescere con l’industria delle armi che con beni e servizi legati alla vita umana e sociale di una comunità in maniera sostenibile. Ripartiamo da economie sociali e sostenibili, dalla finanza etica, dalle imprese di comunità, da imprese associative e cooperative, dalla deurbanizzazione, da norme e processi che tutelino l'ambiente e le relazioni sociali reciproche, da piani strategici legati alla ragione ontologica, da practiche sociali incorporate nell’economia che riducano il gap esistente oggi tra società ed economia, ma ripartiamo, forse e prima di tutto, da un cambio delle coscienze dove rifiutiamo un modello di un uomo che si realizza per quello che ha e non per quello che è: perché la relazione con l’altro e con l’ambiente, è una relazione fondante una dimensione identitaria e non di opportunismo o sopraffazione.

Ripartiamo, quindi, da un’economia che produca pensiero, che nasca dalla società invece di fagocitarla, perché qualsiasi atto economico è, prima di tutto, un atto sociale. La domanda di beni e servizi non si valuti solamente in termini di costi benefici monetari; questo modello possiamo definirlo un’oscurantismo della nostra storia umana, oggi più che mai abbiamo bisogno di un rinascimento socio-economico il cui centro siano gli uomini e le donne, nella loro dimensione relazionale tra di loro e con l’ambiente naturale (capitale sociale etico), e non il denaro.


Bibliografia essenziale

Aliscioni, Claudio Mario (2010). El capital en Hegel, Homo Sapiens, Rosario. 
Hirschman, Albert (1979). Le passioni e gli interessi. Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo, Feltrinelli, Milán.
Hobsbawm, Eric (2010 [1975]). La era del Capital 1848-1875, Crítica, Buenos Aires.
Husserl, Edmund, (2015 [1936]). La Crisis de las ciencias europeas y la fenomenología transcendental, Prometeo, Buenos Aires.
Keynes, John Neville (1999 [1891]). The Scope and Method of Political Economy, Batoche Books, Kitchener. 
Perna, Tonino (1994). Lo sviluppo insostenibile: la crisi del capitalismo delle aree periferiche: il caso del Mezzogiorno, Liguori, Nápoles.
Polanyi, Karl (2000 [1944]). La grande trasformazione, Einaudi, Turín.
Vigliarolo, Francesco, (2019). La economía es un fenómeno social. Principios de fenomenología económica, Eudeba, Buenos Aires.

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