https://sbilanciamoci.info/populismo-argentino-la-versione-autentica/
Il blog contiene riflessioni, articoli e testi in generale che cercano di combattere la cultura della competizione estrema gli uni gli altri che, fondata sul postivismo economico e sull'interese individuale, lascia fuori qualsiasi dimensione di costruzione collettiva e valoriale trasformando le relazioni sociali in un campo di battaglia come tra lupi e agnelli. Propone un approccio fenomenologico per osservare l'economia come costruzione di identità sociale. È un blog interattivo in IT, ES, EN.
lunedì 25 maggio 2020
Cause strutturali delle crisi argentine, tra populismo e neoliberismo, del 2018
Un articolo del 2018 per approfondire la questione argentina tra populismo e neoliberismo, uscito su Sbilanciamoci che ripropone le cause delle ragioni strutturali per cui si arriva a default permanentemente.
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mercoledì 20 maggio 2020
Venezuela e populismo, appunti di un dibattito tenutosi a Padova lo scorso aprile 2019
Appunti
e spunti di riflessione di un dibattito su Venezuela e populismo svoltosi a
Padova lo scorso aprile 2019
Francesco Vigliarolo
Venezuela:
storia di una crisi umanitaria annunciata
Lo scorso aprile del 2019 ho partecipato
a Padova a un dibattito sull’America Latina con particolare attenzione alla
questione venezuelana. Al dibattito, organizzato da studenti e dall'associazione
@LosteriaVolante, hanno partecipato anche alcuni venezuelani: sono ormai circa
3.000.000 gli emigrati da quando si è acuita la crisi umanitaria nel Paese.
La sensazione che ho avuto
dopo essere stato lontano dall’Italia da quasi dodici anni, è che la questione
venezuelana, come molte altre questioni latino-americane, si viva e si risolva
ancora con la stessa tensione di sempre: destra-sinistra, buoni-cattivi; con il
famoso slogan “no pasaran?” come richiamava il titolo del dibattito serale citato
e organizzato molto bene.
A mio avviso, invece, per
comprendere la situazione venezuelana, come anche quella delle democrazie
latino americane di oggi, bisogna capire “la nuova ragione populista” di
Laclau, ideologo del populismo dei governi kirchnerista in Argentina, Bolivia,
Venezuela, Ecuador, solo per menzionare i principali, che hanno animato i primi
15 anni del nuovo millennio, oggi in piena crisi.
La questione per me è tutta
qui. Il populismo laclaiano, un insieme di Hegel, Gramsci, Marx e Smichdt, a
mio avviso interpretati con molta soggettività, è antidemocratico. Porta potenzialmente e
strutturalmente a crisi pericolosissime, sociali e umane. Perché?
Per capire il “populismo” bisogna
partire dalla sua essenza, riprendendo il lascito storico dei populismi anteriori,
primo fra tutti quello russo dove nacque: “dove c’è una dicotomia c’è un
potenziale populismo”. Il populismo usa le dicotomie per spaccare i Paesi, per
dividerli e legittimare il potere dei gruppi politici che lo praticano che
finiscono per identificarsi con lo Stato, che è altra cosa del Governo. Lo
Stato, nel populismo diventa gestore di potere partitico, e non piú promotire
di diritti per tutti i cittadini di una Nazione. È questo il punto finale a cui
tende.
Ma come accade tutto ciò?
Laclau, che osserva senza dubbio il declino dei socialismi della fine del
secolo XX e forse vorrebbe rianimarli (questa è una mia interpretazione), alla
domanda di classe sostituisce quella che chiama “la domanda popolare”. Se per
Marx esisteva la domanda di classe e questa portava al socialismo, per Laclau
esistono varie domande della società che chiama democratiche che il “discorso” (aggrego populista) unifica e costituisce come domanda popolare ceh porta al populismo; ovvero i
portatori di questa domanda costruita dal discorso (piccole o grandi necessità
che siano) sono per la nuova ragione populista il nuovo popolo dentro gli
stessi Paesi. Dall'altra parte, invece, tutti coloro che sono additati dal discorso come responsabili
dell’ordine prestabilito ingiusto, che non permette soddisfare questa domanda popolare, sono i nemici su cui costruire il consenso politico e coloro da combattere,
utilizzando la categoria di amico-nemico di Schmidt.
Ma tutto ciò non è ancora sufficiente; utilizzando Gramsci, il discorso (a cui da poteri ontologici sul popolo, ovvero è il discorso che definisce chi è il popolo come così lo asserisce nella sua opera) individua una domanda popolare egemonica che si impone sulle altre e lo Stato incorpora dentro di sé, dando risposte possibili a queste parti di società per costruire la legittimità democratica. In altre parole, lo Stato come sommo bene hegeliano in cui la società civile tendeva come processo spontaneo di autodeterminazione e come volontà generale (riprendendo Rosseau), in Laclau è colui che sceglie, fagocita pezzi di società a cui da risposte possibili rispetto alle sue possibilità.
È questo un passaggio importantissimo. Il Governo populista appropriandosi dello Stato ora costruisce il patto sociale secondo le istanze che considera opportune e questo non nasce più dalla società che lo Stato deve garantire. Si trasforma, cosí, in parte tra le parti ma con molti più poteri delle stesse parti. Si diluisce, così, in una unica espressione, il dibattito democratico libero in quanto lo Stato/Governo assorbe e porta dentro di sé parti di società civile; diviene benefattore (eroga piani sociali), padre (genera e gestisce risorse) e padrone (controlla i poteri intermedi e democratici). A poco a poco, scompare l’iniziativa cittadina, diminuisce la produzione privata o si mantiene a livelli di sopravvivenza, espropria le imprese private generalmente quelle grandi, vive principalmente di risorse strategiche come il petrolio o interviene nella gestione delle materie prime per finanziarsi e controllare l’economia senza parlare della corruzione che è endemica e strutturale in tutti i governi populisti (che volendo essere magnanimi possiamo dire che la usa per finanziarsi). Il Governo finisce per sovrapporsi allo Stato che si trasforma in uno strumento di costruzione del potere e non più per assicurare i diritti e le regole democratiche per tutti i cittadini.
Ma tutto ciò non è ancora sufficiente; utilizzando Gramsci, il discorso (a cui da poteri ontologici sul popolo, ovvero è il discorso che definisce chi è il popolo come così lo asserisce nella sua opera) individua una domanda popolare egemonica che si impone sulle altre e lo Stato incorpora dentro di sé, dando risposte possibili a queste parti di società per costruire la legittimità democratica. In altre parole, lo Stato come sommo bene hegeliano in cui la società civile tendeva come processo spontaneo di autodeterminazione e come volontà generale (riprendendo Rosseau), in Laclau è colui che sceglie, fagocita pezzi di società a cui da risposte possibili rispetto alle sue possibilità.
È questo un passaggio importantissimo. Il Governo populista appropriandosi dello Stato ora costruisce il patto sociale secondo le istanze che considera opportune e questo non nasce più dalla società che lo Stato deve garantire. Si trasforma, cosí, in parte tra le parti ma con molti più poteri delle stesse parti. Si diluisce, così, in una unica espressione, il dibattito democratico libero in quanto lo Stato/Governo assorbe e porta dentro di sé parti di società civile; diviene benefattore (eroga piani sociali), padre (genera e gestisce risorse) e padrone (controlla i poteri intermedi e democratici). A poco a poco, scompare l’iniziativa cittadina, diminuisce la produzione privata o si mantiene a livelli di sopravvivenza, espropria le imprese private generalmente quelle grandi, vive principalmente di risorse strategiche come il petrolio o interviene nella gestione delle materie prime per finanziarsi e controllare l’economia senza parlare della corruzione che è endemica e strutturale in tutti i governi populisti (che volendo essere magnanimi possiamo dire che la usa per finanziarsi). Il Governo finisce per sovrapporsi allo Stato che si trasforma in uno strumento di costruzione del potere e non più per assicurare i diritti e le regole democratiche per tutti i cittadini.
Effetto di tutto ciò è la distruzione dei corpi
intermedi, la sparizione del dibattito democratico e la trasformazione di
questo in buoni e cattivi (amici/nemici) aumentano l’odio sociale che è il
terreno fertile su cui il populismo si rigenera perché istiga le masse contro
qualcosa o qualcuno; questo è l'humus del populismo.
Questo processo è ancora più
facile in America Latina dove il tessuto socio economico è molto più debole che
in altre Regioni e dipende da beni importati (si registra un deficit di conto
corrente primario della Regione, per la produzione di beni e servizi, pari a
88.300.000.000 di dollari). La politica fa un po’ da padre-padrone di fronte a
una società civile molte volte frammentata e un tessuto istituzionale debole,
senza menzionare l’economia locale. Se citiamo alcuni dati, per esempio, i
redditi medi in America Latina sono circa 8.858 dollari annuali, mentre in
Europa e in USA sono rispettivamente di 49 e 51.000 dollari. Per non parlare
della disuguaglianza del possesso delle risorse naturali per le quali si
registra un indice di Gini della terra pari a 0,79 (dati della CEPAL).
Tutto ciò incide fortemente
sui Diritti Umani. Per esempio, secondo il Rapporto Amnesty International del
2018, in Venezuela i diritti fondamentali come la libertà di espressione o di
riunione hanno sofferto un grave retrocesso negli ultimi anni: più di 50 radio
sono state chiuse; almeno 120 persone hanno perso la vita in proteste di massa;
la dissidenza che non ha partecipato dell’elezione dell’Assemblea Costituente è
silenziata e frammentata dal Governo; l’indipendenza della Giustizia non esiste
più, per esempio la Giudice Generale della Nazione Luisa Ortega è stata
destituita in circostanze irregolari; decine di civili sono stati processati
sotto giurisdizione militare; centinaia di oppositori politici sono stati presi
e risiedono in condizioni dure per i quali si denunciano anche gravi torture;
il Paese è finito in una crisi alimentaria e sanitaria senza precedenti e
da marzo di quest’anno non può somministrare più l’elettricità e l’acqua
potabile. Per non parlare della distruzione del mercato interno, di
un’inflazione che non è più misurabile e che il salario medio è solo di 3
dollari al mese.
Venezuela, in altre parole, è
stato il laboratorio in tutti questi anni di un processo populista che ha visto
la distruzione del tessuto socio-economico, dei suoi corpi intermedi,
dell’iniziativa economica, della dialettica democratica. La società non è stata
più capace di produrre le basi della propria vita. L'industria del petrolio, assorbita e
gestita dallo Stato, è divenuta l’unica risorsa economica.
In queste condizioni, la crisi umanitaria era assolutamente una crisi annunciata.
Nelle sue estreme conseguenze, “la nuova ragione populista” genera crisi umanitarie e Paesi all’orlo di guerre civili. Purtroppo una terza via non è ancora forte e anche a causa della corruzione endemica dei populismi di sinistra, le destre autoritarie sono tornate al potere come reazione a questo scenario di manipolazione di massa.
La questione venezuelana non è, quindi, una questione di destra-sinistra. È un problema di libertà della società incapaci di essere coniugate con la costruzione di una visione comune, di disuguaglianza e di iniziativa cittadina (al 2017 solo l’11,7% è attivo in settori produttivi manufatturieri); molte persone sono rimaste escluse dalla creazione del benessere locale (al 2017 la partecipazione attiva è del 64.4% e se si prende il dato delle sole donne questo è di appena poco superiore del 50%). Lo Stato controlla la gestione delle risorse. Si appropria della società per manipolarla e la gestisce (principalmente le classi più necessitate e vulnerabili) per legittimarsi con i suoi voti.
La questione venezuelana, è, quindi, un problema di processo democratico fagocitato da uno Stato che si trasforma in gestore del potere di una parte politica. L’obiettivo principale che ricercano i populismi è, cosi, il voto delle classi vulnerabili donando loro risposte di sopravvivenza, non la soluzione strutturale dei problemi del Paese. In tale direzione, un autorevole sociologo degli anni scorsi, affermava che per un piatto di lenticchie il populismo, riferendosi al peronismo argentino, comprava le libertà dei cittadini.
In queste condizioni, la crisi umanitaria era assolutamente una crisi annunciata.
Nelle sue estreme conseguenze, “la nuova ragione populista” genera crisi umanitarie e Paesi all’orlo di guerre civili. Purtroppo una terza via non è ancora forte e anche a causa della corruzione endemica dei populismi di sinistra, le destre autoritarie sono tornate al potere come reazione a questo scenario di manipolazione di massa.
La questione venezuelana non è, quindi, una questione di destra-sinistra. È un problema di libertà della società incapaci di essere coniugate con la costruzione di una visione comune, di disuguaglianza e di iniziativa cittadina (al 2017 solo l’11,7% è attivo in settori produttivi manufatturieri); molte persone sono rimaste escluse dalla creazione del benessere locale (al 2017 la partecipazione attiva è del 64.4% e se si prende il dato delle sole donne questo è di appena poco superiore del 50%). Lo Stato controlla la gestione delle risorse. Si appropria della società per manipolarla e la gestisce (principalmente le classi più necessitate e vulnerabili) per legittimarsi con i suoi voti.
La questione venezuelana, è, quindi, un problema di processo democratico fagocitato da uno Stato che si trasforma in gestore del potere di una parte politica. L’obiettivo principale che ricercano i populismi è, cosi, il voto delle classi vulnerabili donando loro risposte di sopravvivenza, non la soluzione strutturale dei problemi del Paese. In tale direzione, un autorevole sociologo degli anni scorsi, affermava che per un piatto di lenticchie il populismo, riferendosi al peronismo argentino, comprava le libertà dei cittadini.
Tutto ciò deve essere un monito per tutte le democrazie, perché quando non si riescono a risolvere
problemi strutturali socio-economici, di costruzione di un bene comune coniugandolo con le libertà e i Diritti
Umani, di disuguaglianze, ecc.. i populismi intervengono e dividono i popoli. Ma i progetti comuni Paesi solidi sono quelli capaci di tenere insieme tutte le parti, e alimentano un dibattito che si basa sull'odio sociale. Perché la "ragione ontologica" dei
popoli è una costruzione intersoggettiva attorno a valori comuni che uniscono. Il pericolo che
attraversano oggi gran parte delle democrazie moderne.
…………………………
Per approfondire la questione argentina su populismo e neoliberismo, si propone questo articolo uscito nel 2018 su Sbilanciamoci.
https://sbilanciamoci.info/populismo-argentino-la-versione-autentica/
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Per approfondire la questione argentina su populismo e neoliberismo, si propone questo articolo uscito nel 2018 su Sbilanciamoci.
https://sbilanciamoci.info/populismo-argentino-la-versione-autentica/
venerdì 15 maggio 2020
Articolo, Crisi mondiale: alcuni concetti e proposte di fondo per un rinascimento socio-economico
Crisi mondiale: alcuni concetti e proposte di fondo per
un rinascimento socio-economico
Francesco Vigliarolo
Francesco Vigliarolo
La crisi
mondiale legata alla pandemia del CVD19 ci ha senza dubbio interpellato in
tutti i campi della vita umana. Uno di questi è quello economico. Molti hanno preso coscienza che il modello economico dominante è ormai inadeguato e c'è bisogno, più che mai, di modelli economici sostenibili con l’ambiente, con le
relazioni sociali ma, prima di tutto, con quello “che siamo”, ciò
che definisco la nostra “ragione ontologica”.
Per capire
tale affermazione bisogna ricordare che per molti secoli l’economia è stata
orientata a soddisfare gli interessi individuali attraverso la logica matematica basata nella legge della domanda e dell’offerta che ha dato vita al positivismo
economico che ha lasciato fuori dai sistemi qualsiasi domanda con implicazioni trascendentali e soggettive, come per esempio: che tipo di società vogliamo?
Di fatto,
come osservava il padre del più famoso Keynes, già nel 1891, preoccupato degli
effetti che generava l’economia classica e della crisi delle scienze in generale
fagocitate dal positivismo che avanzava (si legga anche la “Crisi delle scienze
europee” di Husserl), distingueva appunto l’economia normativa da quella
positiva; quest’ultima si occupa di studiare il sistema “per ciò che è” senza
importarsi del dove esso ci porta, in altre parole, si occupa del far quadrare
i conti senza importare se questo produce miseria o benessere, se come si
cresce sia sostenibile legato alle industrie di manufatture utili alla vita o
alle industrie delle armi legate alla morte. Non si valuta più l’orizzonte a cui
si tende, ma solo se si è capaci di mantenere il rapporto deficit-PIL al 3%,
tradotto in una formula dei nostri tempi prendendo il caso dell’Unione
Europea.
Tutto ciò, negli anni, ha portato ad un’appiattimento del pensiero in economia dove
priorità umane, sociali, ambientali, vocazioni, passioni, valori …, come diceva Hirschman
(1979), sono state trasformate in interessi individuali, che secondo la scuola
dominante sono le uniche forze che devono muovere l’economia perchè ciò che
conta è il mercato. Tutto è trasformato in valore commerciale, anche il valore
del lavoro che per i classici era inizialmente generatore di ricchezza, è
sempre più a rischio a causa delle leggi di un mercato senza leggi; il
mercato è l’unico luogo in cui deve svoglersi l’azione economica poiché, sempre per i classici, l'uomo è egoista ed orientato allo scambio e non un essere sociale, come molto tempo prima aveva detto, invece, Aristotele che insieme a Senofonte avevano posto le basi del
concetto di economia come una branca dell'etica (distinguendola giustamente dalla Crematistica
che, invece, persegue interessi di arricchimento personale). La società diviene,
così, un sottoinsieme del mercato che tende solo ad accumulare ricchezze
individuali. Perfino la riccehzza delle Nazioni si ottiene attraverso la
ricchezza che conseguono i singoli cittadini, non esiste una visione e un bene
comune, solo un insieme di individualità definito appunto bene comune attraverso la
fede smisurata nella famosa mano invisibile (che ahimè non si vede nella realtà). E i problemi di questo modello
sono sotto gli occhi di tutti (si stima che l'1% possederà a breve il 99% delle risorse del Pianeta). L’imperativo crescere, crescere, crescere ha
violentato e continua a violentare interi Paesi, anche davanti a una crisi come
quella che abbiamo vissuto in questo momento epocale; fermarsi a tempo in
alcune aree fortemente industrializzate è stato impossibile. I profitti vengono
anche prima della vita umana. Viviamo ormai economie di morte. Le
contaminazioni ambientali sono solo uno dei tanti problemi; nel mondo muoiono all’anno per
gli effetti dell’inquinamento ambientale 7 milioni di persone, 700.000 in Europa e 70.000
in Italia.
La forza lavoro sotto attacco
A tutto ciò, si aggiunge che la forza lavoro è sempre più erosa di fronte alla circolazione dei capitali nei mercati finanziari internazionali che rispondono solo all’imperativo di grandi profitti comprando quote azionarie senza avere neppure più una relazione con la produzione. Nascono imprese matrioska come scatole di azioni su azioni che indeboliscono permanentemente la produzione reale e la forza lavoro. In questo modo, dagli anni 1970 si afferma sempre più il ruolo della finanza sulla produzione. La finanziarizzazione economica è ormai un fatto e influenza in modo grave la vita delle popolazioni di tutto il mondo. Si stima che il 95% dei valori finanziari non abbia relazione con i beni e servizi scambiati senza pensare che il rimanente 5% è dovuto alla produzione di armi o beni e servizi assolutamente insostenibili con l'ambiente e la società, rispondono solo alle leggi di mercato (si legga anche l'affermarsi di beni con sempre meno durabilità).
Le crisi finanziarie sono cosi una prassi e oggi significano anche crisi alimentarie e di aumento di sacche di disoccupazione crescente anche nei cosiddetti Paesi industrializzati. Il lavoro è ormai un elemento marginale. Ma il lavoro, che è per eccellenza il principale strumento di trasformazione della nostra materialità per poter vivere, ha un valore ontologico che non può essere mercificato, ma promosso, valorizzato, tutelato. Per Hegel è il vero capitale economico di un Paese quando unito a quella sapienza tipica di ogni Nazione che si acquisisce negli anni. Perché senza lavoro non possiamo essere. Ovvero, non abbiamo le condizioni per poter sviluppare le condizioni della vita e, per tanto, non si può trattare come merce ma solo e, prima di tutto, con un valore ontologico. Altrimenti vendiamo noi stessi, perpetriamo l’atto di implosione più grande della nostra storia umana. Forse è per questo che Papa Francesco propone un salario universale, perché il lavoro è qualcosa di sacro su cui si fonda tutta l’organizzazione della vita umana, e lasciarlo agli interessi individuali e alle leggi del mercato sarebbe minare la stessa vita dell’Umanità.
A tutto ciò, si aggiunge che la forza lavoro è sempre più erosa di fronte alla circolazione dei capitali nei mercati finanziari internazionali che rispondono solo all’imperativo di grandi profitti comprando quote azionarie senza avere neppure più una relazione con la produzione. Nascono imprese matrioska come scatole di azioni su azioni che indeboliscono permanentemente la produzione reale e la forza lavoro. In questo modo, dagli anni 1970 si afferma sempre più il ruolo della finanza sulla produzione. La finanziarizzazione economica è ormai un fatto e influenza in modo grave la vita delle popolazioni di tutto il mondo. Si stima che il 95% dei valori finanziari non abbia relazione con i beni e servizi scambiati senza pensare che il rimanente 5% è dovuto alla produzione di armi o beni e servizi assolutamente insostenibili con l'ambiente e la società, rispondono solo alle leggi di mercato (si legga anche l'affermarsi di beni con sempre meno durabilità).
Le crisi finanziarie sono cosi una prassi e oggi significano anche crisi alimentarie e di aumento di sacche di disoccupazione crescente anche nei cosiddetti Paesi industrializzati. Il lavoro è ormai un elemento marginale. Ma il lavoro, che è per eccellenza il principale strumento di trasformazione della nostra materialità per poter vivere, ha un valore ontologico che non può essere mercificato, ma promosso, valorizzato, tutelato. Per Hegel è il vero capitale economico di un Paese quando unito a quella sapienza tipica di ogni Nazione che si acquisisce negli anni. Perché senza lavoro non possiamo essere. Ovvero, non abbiamo le condizioni per poter sviluppare le condizioni della vita e, per tanto, non si può trattare come merce ma solo e, prima di tutto, con un valore ontologico. Altrimenti vendiamo noi stessi, perpetriamo l’atto di implosione più grande della nostra storia umana. Forse è per questo che Papa Francesco propone un salario universale, perché il lavoro è qualcosa di sacro su cui si fonda tutta l’organizzazione della vita umana, e lasciarlo agli interessi individuali e alle leggi del mercato sarebbe minare la stessa vita dell’Umanità.
Di fatto, con la globalizzazione economica, da anni ormai si
combatte in tutto
il mondo la battaglia tra maggiore circolazione di capitale e lavoro, in cui nell’epoca del capitalismo finanziario l'alta
finanza cerca di relegarlo a un ruolo marginale. Le riforme che si sono fatte in Italia,
Francia, anche mascherate dalla sinistra, e in molte parti del mondo lo
dimostrano. Si combatte la battaglia tra questo e tra chi vuole meno tutele, maggiore flessibilità per permettere al capitale di circolare sempre di più, di chi vuole spostare facilmente capitali da un'impresa all'altra perché più redditizie,
lasciando in ginocchio interi Paesi senza più alcuna tutela. Si va all’estero
per pagarlo meno e aumentare i profitti, ormai è un costo da ridurre il
più possibile ma ridurlo significa aver messo a rischio la nostra ragione
ontologica dove pochi accumulano, accumulano e accumulano immensi capitali
finanziari mentre tantissimi non hanno più neppure le necessarie per vivere. Otto gruppi economici controllano le sorti del mondo. In questo
modo, si compra tutto, anche la sovranità politica ormai non ha più peso.
La democrazia è a rischio.
Questa
battaglia, forse, inizia per qualcuno dai tempi della rivoluzione industriale,
quando il lavoro e il capitale per Hobsbawn (2010) prendono cammini differenti,
e nell’epoca del capitalismo finanziario oggi è sempre più a rischio a causa
di un’economia senza anima che costruisce immense ricchezze nominali nei
mercati finanziari ma non riesce a rispondere ai bisogni delle popolazioni
locali. Cresce la rendita finanziaria, diminuisce il valore medio della forza
lavoro in tutto il mondo, sempre più vituperato, e si è sempre più incapaci di tutelare
diritti essenziali come alimentazione, educazione, salute, ecc..; il fenomeno
della crescita economica che va di pari passo con la perdita del valore del lavoro lo
testimonia (quello che in igliese è conosciuto come jobless-growth).
L'esigenza di una conversione radicale
Ma nonostante molte erano le denunce di numerosi intellettuali, economisti, sociologi e cittadini a questo modello di sviluppo insostenibile, come lo definiva Perna (1994), si pensava andare avanti cosi fino alla fine dei tempi, se la crisi attuale non avesse fatto venire allo scoperto a tutti i nodi di questo sistema; un sistema il cui interesse era solo riprodursi ignorando l’identità umana e ambientale, quella che Polanyi (1944) chiamava la sostanza naturale e umana di una società che non può essere mercificata. E proprio oggi quando il lavoro è ancora più a rischio, migliaia di posti di lavoro si stanno perdendo in tutto il mondo, la crisi ci mette davanti agli occhi anche una grande opportunità, quella di convertire questa economia che ci ha portato quasi alla distruzione, al baratro. C'è bisogno di una conversione profonda e radicale. Una conversione che ci faccia transitare dai mercati finanziari al territorio locale, dagli interessi individuali al bene comune, dai tempi di morte delle grandi imprese matrioska ai tempi di vita delle piccole e medie imprese legate al territorio in maniera sostenibile, dai beni commerciali ai beni ontologici, dai tempi di stress ai tempi di una ritrovata armonia con l'ambiente e la società, dal capitale al lavoro, dall'accumulazione all'investimento nei territori. Perché ricordiamo sempre che un’impresa nasce, vive e si sviluppa in un contesto territoriale, è alimentata da relazioni con gli altri e con l'ambiente circostante, si alimenta per i suoi beni e servizi venduti a individui che fanno parte di una comunità. È soggetta alle norme giuridiche nazionali e internazionali nell'ambito di un ordine politico e sociale che la definisce e la supera. È composta da lavoratori che con la loro storia umana e sociale vivono e costruiscono nella loro dimensione biografica una visione della vita in maniera intersoggettiva permanentemente. Per tale motivo è sempre e solamente un soggetto collettivo e non puo essere mai ridotta a un interesse individuale.
Ma nonostante molte erano le denunce di numerosi intellettuali, economisti, sociologi e cittadini a questo modello di sviluppo insostenibile, come lo definiva Perna (1994), si pensava andare avanti cosi fino alla fine dei tempi, se la crisi attuale non avesse fatto venire allo scoperto a tutti i nodi di questo sistema; un sistema il cui interesse era solo riprodursi ignorando l’identità umana e ambientale, quella che Polanyi (1944) chiamava la sostanza naturale e umana di una società che non può essere mercificata. E proprio oggi quando il lavoro è ancora più a rischio, migliaia di posti di lavoro si stanno perdendo in tutto il mondo, la crisi ci mette davanti agli occhi anche una grande opportunità, quella di convertire questa economia che ci ha portato quasi alla distruzione, al baratro. C'è bisogno di una conversione profonda e radicale. Una conversione che ci faccia transitare dai mercati finanziari al territorio locale, dagli interessi individuali al bene comune, dai tempi di morte delle grandi imprese matrioska ai tempi di vita delle piccole e medie imprese legate al territorio in maniera sostenibile, dai beni commerciali ai beni ontologici, dai tempi di stress ai tempi di una ritrovata armonia con l'ambiente e la società, dal capitale al lavoro, dall'accumulazione all'investimento nei territori. Perché ricordiamo sempre che un’impresa nasce, vive e si sviluppa in un contesto territoriale, è alimentata da relazioni con gli altri e con l'ambiente circostante, si alimenta per i suoi beni e servizi venduti a individui che fanno parte di una comunità. È soggetta alle norme giuridiche nazionali e internazionali nell'ambito di un ordine politico e sociale che la definisce e la supera. È composta da lavoratori che con la loro storia umana e sociale vivono e costruiscono nella loro dimensione biografica una visione della vita in maniera intersoggettiva permanentemente. Per tale motivo è sempre e solamente un soggetto collettivo e non puo essere mai ridotta a un interesse individuale.
La
deurbanizzazione
In tale
scenario, potrebbe venirci in aiuto l’economia regionale e la geografia
economica. A causa dei modelli incentrarti sulla crescita quantitativa, le
città si sono trasformate in centri dormitorio utili alla circolazione del
capitale, perdendo la loro capacità di essere, prima di tutto, centri di
socializzazione. Centri che esprimano e costruiscano in maniera intersoggettiva
una visione della vita, la costruzione di quelle prassi, costumi e ragion
pratica (pratiche sociali) che permettano la vita comunitaria per tutti i loro
cittadini e non solo per pochi. Infatti, in molti casi, tale urbanizzazione è
andata di pari passo con disuguaglianze estreme, si pensi per esemplio alle
agglomerazioni urbane marginali dell’America Latina come le famose favelas in Brasile, le villas miserias in Argentina, ecc.. che
da quando sono apparese hanno un ritmo di crescita costante ed esponenziale. Per
tutto questo, oggi più che mai, potremmo ripartire anche e fondamentalmente da
nuovi modelli di città, da una nuova urbanizzazione e, forse, è doveroso
parlare di “de-urbanizzaione”.
Riproponiamo le
campagne come luoghi di nuovi modelli di habitat, appropriamoci di
modelli economici ciclici, che riprendono un concetto vecchio che risale ai
fisiocrati ma uniamolo con quello della sostenibilità ambientale e sociale.
Ovvero sviluppiamo beni e servizi che servano alla comunità il cui valore si
fondi sulla produzione e non nulla commercializzazione. Costruiamo in questo
modo “bene comune” dalla relazione diretta tra terra, lavoro e comunità in
permanente evoluzione. In questo contesto, lo Stato forse è chiamato ad
occuparsi maggiormente dei beni pubblici, tra i quali migliorare quelle
infrastrutture permettendo di abbattere definitivamente le barriere
dell’isolamente e creare una perfetta comunicazione tra centri e periferie. Si
pensi ai sud del mondo. E un ruolo strategico lo giocano anche le nuove
tecnologie, che se non usate più solo per ampliare mercati fagocitati dalla
vecchia logica economica individualista, o per svegliare istinti repressi da un
uomo sempre più abrutito, servono per unire le persone, scambiare idee, fare
comunità.
Forse, le
grandi imprese che gestiscono le sorti del mondo perderanno un po’ di profitti
ma altri ne avranno un poco di più perchè non omologati da un'offerta di beni
di poche marche. Tutto cio permette di costruire forse una produzione piu pluralista
che parteciperà anche dei suoi benefici; e, forse ancora, siamo chiamati tutti a
rinunciare a qualcosa per poter rimettere al centro il “bene comune”, frutto
delle relazioni reciproche che si costruiscono ogni giorno che è l’unica
condizione che ci tiene tutti insieme.
La domanda di diritti
Ma attenzione a confondere la domanda di consumi con “la domanda diritti” (ragione ontologica). Questa dipende dalla capacità di rispondere alle priorità della vita e ha bisogno di un “patto sociale” tra gli attori (di una meso-economia) in permanente evoluzione, ma prima di tutto di una società attenta, di un’alto grado di coscienza sociale rispetto alle cose che sono importanti. Non facciamoci appiattire dal pensiero positivista ma attribuiamo significato al mondo che ci circonda e, prima di tutto, ai beni e servizi il cui valore non può essere defnito solo dal mercato perchè dietro di loro c’è sempre una relazione con il soggetto attraverso cui si definisce un’idea, un concetto che va interpretato in termini di funzione che svolgono e, prima di tutto, di visione del mondo che generano. Non è lo stesso crescere con l’industria delle armi che con beni e servizi legati alla vita umana e sociale di una comunità in maniera sostenibile. Ripartiamo da economie sociali e sostenibili, dalla finanza etica, dalle imprese di comunità, da imprese associative e cooperative, dalla deurbanizzazione, da norme e processi che tutelino l'ambiente e le relazioni sociali reciproche, da piani strategici legati alla ragione ontologica, da practiche sociali incorporate nell’economia che riducano il gap esistente oggi tra società ed economia, ma ripartiamo, forse e prima di tutto, da un cambio delle coscienze dove rifiutiamo un modello di un uomo che si realizza per quello che ha e non per quello che è: perché la relazione con l’altro e con l’ambiente, è una relazione fondante una dimensione identitaria e non di opportunismo o sopraffazione.
Ma attenzione a confondere la domanda di consumi con “la domanda diritti” (ragione ontologica). Questa dipende dalla capacità di rispondere alle priorità della vita e ha bisogno di un “patto sociale” tra gli attori (di una meso-economia) in permanente evoluzione, ma prima di tutto di una società attenta, di un’alto grado di coscienza sociale rispetto alle cose che sono importanti. Non facciamoci appiattire dal pensiero positivista ma attribuiamo significato al mondo che ci circonda e, prima di tutto, ai beni e servizi il cui valore non può essere defnito solo dal mercato perchè dietro di loro c’è sempre una relazione con il soggetto attraverso cui si definisce un’idea, un concetto che va interpretato in termini di funzione che svolgono e, prima di tutto, di visione del mondo che generano. Non è lo stesso crescere con l’industria delle armi che con beni e servizi legati alla vita umana e sociale di una comunità in maniera sostenibile. Ripartiamo da economie sociali e sostenibili, dalla finanza etica, dalle imprese di comunità, da imprese associative e cooperative, dalla deurbanizzazione, da norme e processi che tutelino l'ambiente e le relazioni sociali reciproche, da piani strategici legati alla ragione ontologica, da practiche sociali incorporate nell’economia che riducano il gap esistente oggi tra società ed economia, ma ripartiamo, forse e prima di tutto, da un cambio delle coscienze dove rifiutiamo un modello di un uomo che si realizza per quello che ha e non per quello che è: perché la relazione con l’altro e con l’ambiente, è una relazione fondante una dimensione identitaria e non di opportunismo o sopraffazione.
Ripartiamo, quindi, da un’economia che produca pensiero, che nasca dalla società invece di fagocitarla, perché
qualsiasi atto economico è, prima di tutto, un atto sociale. La domanda di beni e servizi non si valuti solamente in termini di costi benefici monetari; questo modello possiamo definirlo un’oscurantismo
della nostra storia umana, oggi più che mai abbiamo bisogno di un rinascimento
socio-economico il cui centro siano gli uomini e le donne, nella loro
dimensione relazionale tra di loro e con l’ambiente naturale (capitale sociale
etico), e non il denaro.
Bibliografia
essenziale
Aliscioni, Claudio Mario (2010). El capital en Hegel, Homo Sapiens, Rosario.
Hirschman, Albert (1979). Le passioni e gli interessi. Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo, Feltrinelli, Milán.
Hobsbawm, Eric (2010 [1975]). La era del Capital 1848-1875, Crítica, Buenos Aires.
Husserl, Edmund, (2015 [1936]). La Crisis de las ciencias europeas y la fenomenología transcendental, Prometeo, Buenos Aires.
Keynes, John Neville (1999 [1891]). The Scope and Method of Political Economy, Batoche Books, Kitchener.
Perna, Tonino (1994). Lo sviluppo insostenibile: la crisi del capitalismo delle aree periferiche: il caso del Mezzogiorno, Liguori, Nápoles.
Polanyi, Karl (2000 [1944]). La grande trasformazione, Einaudi, Turín.
Vigliarolo, Francesco, (2019). La economía es un fenómeno social. Principios de fenomenología económica, Eudeba, Buenos Aires.
giovedì 14 maggio 2020
Libro: "La economia es un fenomeno social. Principios de fenomenología económica", Eudeba, Buenos Aires.
È uscito a ottobre 2019 il libro "La economia es un fenomeno social. Principios de fenomenología económica", Eudeba Editora, Buenos Aires.
Propone un'analisi storica e teorica dell'economia dalla sua nascita fino a i giorni nostri, nell'epoca del capitalismo finanziario; traccia le cause che portano al positivismo economico e le problematiche che esso implica per arrivare a fondare la "fenomenologia economica". Contiene i presupposti, i principi, il metodo, il concetto di ragione ontologica, la domanda di diritti dei popoli, il processo di socializzazione economica e casi studio e modelli di economia interpretabili in termini fenomenologici.
A questo link si può acquistare.
Libro sui Principi della fenomenologia economica
Propone un'analisi storica e teorica dell'economia dalla sua nascita fino a i giorni nostri, nell'epoca del capitalismo finanziario; traccia le cause che portano al positivismo economico e le problematiche che esso implica per arrivare a fondare la "fenomenologia economica". Contiene i presupposti, i principi, il metodo, il concetto di ragione ontologica, la domanda di diritti dei popoli, il processo di socializzazione economica e casi studio e modelli di economia interpretabili in termini fenomenologici.
A questo link si può acquistare.
Libro sui Principi della fenomenologia economica
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