Francesco Vigliarolo
Non c’è dubbio che la cucina italiana sia una delle più saporite e
conosciute al mondo. Una cucina prettamente regionale che però ha esportato
sapori che sono diventati oggi patrimonio mondiale, si pensi alla pizza, alla
pasta in tutte le sue versioni, spaghetti, agnolotti, tortellini, lasagne,
tagliatelle, ecc., ad alcuni formaggi come il parmiggiano, il gorgonzola, solo
per citare alcuni esempi significativi. Ma quella italiana è sicuramente anche
una cucina che mantiene una relazione diretta tra i prodoti della terra e i
sapori che compongono i piatti senza alterazioni sofisticate come spesso
avviene per altre cucine, per esempio quella francese. Questo, forse, se lo è
potuto permettere anche grazie al fatto che il Paese si situa climaticamente in
uno dei luoghi più favoriti e perfettamente eterogenei al mondo -sia dal lato
marino che da quello collinare e montano- che le ha permesso di godere di
qualità dei sapori così come si trovano già in natura.
Per esempio, vengono in mente alcuni piatti, le trofie con il pesto
ligure, le tagliatelle con il ragù bolognese, la ribollita toscana, la polenta
concia piemontese, la torta pasqualina genovese, tutte espressioni di necessità
e ingredienti che vengono praticamente messi quasi direttamente nel piatto dopo
la cottura o la loro trasformazione con processi lenti che esaltano le
componenti organolettiche che si sprigionano naturalmente dal loro ciclo
biologico. O, anche, paste importanti per il loro gusto “forte”, come la
amatriciana e la carbonara, e la semplicità geniale del “cacio e pepe” romano.
O ancora, la qualità di alcuni aceti come quello balsamico di Modena e Reggio
Emilia, il parmiggiano della stessa zona, tutti sapori che oramai
caratterizzano l’identità culinaria mondiale.
Ma perchè tutto questo? Perchè forse si possono fare delle considerazioni
più profonde prendendo in esame la relazione tra la cucina e la qualità
dell’organizzazione sociale di un luogo che si rispecchia nei suoi processi di
sviluppo. O, meglio, la storia della cucina di un luogo ci permette riflettere
sulle caratteristiche che conformano l’organizzazione sociale? Fino a quelle
relative ad un’economia “sana” e sostenibile? Per rispondere a tali domande, a
nostro avviso, la Calabria è l’esempio perfetto. In altre parole: dove ci sono
piatti tipici, ma prima di tutto di ineteresse regionale, ci sono anche
elementi di coesione ed eccellenza in campo sociale ed economico che possano
creare un maggior “senso di comunità”? Dove tali piatti, sono meno presenti, si
ha la tendenza ad avere un’organizzazione sociale più permeabile ad interessi
personalistici, un’economia di rapina, di sussistenza, di servizi o anche
basata, principalmente, nelle risorse pubbliche?
Prendendo per corretto questo esercizio, ovviamente con tutti i suoi
limiti, andando a vedere l’esempio calabrese, potremmo dire che la sua è una
cucina zonale che ha difficoltà a fare sintesi e proporre piatti regionali. Per
esempio, fuori dalle mura regionali, la si conosce per l’uso “complementare” di
alcuni prodotti, come la pizza alla calabrese, cosi chiamata da tutte le parti
da Sindey a Rio de Janeiro, da Buenos Aires a Roma, per la presenza di salame
piccante. Ma il salame piccante non è un piatto completo. È un ingrediente che
viene aggiunto, in questo caso alla pizza. E ancora, il peperoncino, le
melanzane sott’olio, i salami, le soppressate, la ricotta fresca, se ci
pensiamo bene sono tutte componenti che possono accompagnare un piatto o fare
da contorno, ma non sono un piatto autosufficiente regionale, come per esempio le
orecchiette con le cime di rapa per la Puglia, i tortellini con le diverse
varianti per l’Emilia-Romagna, ecc. ecc. Sicuramente, si dirà: e la pasta al
forno, la pasta con il sugo di capretto, le polpette di melanzane? Ovviamente
che ci sono piatti in Calabria. Ma spesso sono solo territorialmente
localizzati o, altre volte, sono varianti di altri prodotti che non
rappresentano veri e propri piatti originali rispetto alla potenzialità di
sapori che la terra esprime. Come la ‘nduja di Spilinga che è assolutamente
unica, ma solo recentemente si sta affermando in tutta la Regione, come anche
alcuni sapori al bergameotto che nascono nella zona della jonica reggina.
Come dire che accomunano più i “contorni” che non i piatti principali. Che
si sta chiusi in se stessi invece di fare massa critica come Regione attorno
alle cose che contano. In altre parole, non si risolvono il cuore dei problemi
in maniera strutturale o collettivamente. Per esempio, non esiste una sanità o
una industria di eccellenza calabrese, ecc.. ecc. E ciò si traduce a volte in
un’economia di sussistenza, e quando di eccellenza lo è solo a macchie (solo in
alcune zone), dipendente dal pubblico e caratterizzata di poca forza
imprenditoriale privata di qualità che non fa da traino per l’intera Regione
(lasciando da parte in questo momento, le considerazioni che derivano dalla
malavita organizzata che ovviamente incidono anch’esse).
Tutto ciò, tradotto in termini di riflessione sociale ed economica potrebbe
essere che esistono molte individualità di eccellenza ma la società nel suo
complesso soffre ancora tanti ritardi in termini di “crescita comunitaria o
collettiva”, quello che possiamo chiamare un capitale sociale di tipo bridging (per
ponti), inclusivo, eterogeneo, basato su un senso di fiducia diffusa tra le
persone perché funzionano le istituzioni, e non sui rapporti di forza. Di
fatto, prevale, principalmente, un capitale sociale di tipo bonding (per
vincoli), per l'appartenenza a gruppi di famiglie e amici. La famosa frase,
croce e delizia, per capire chi sei, “a chi appartieni?”, tipica della società
calabrese, ne è una sintesi perfetta. Si sviluppa cosi un capitale sociale a
ragnatela dove si tessono relazioni di appartenenza che si contendono i luoghi
del potere per decadi e decadi, come avviene spesso nei tanti piccoli paesini
dove ci sono gruppi al potere per oltre 50 anni. In questo modo, si appiattisce
la discussione sociale, non si discute più il merito dei fatti in sé, ma si
stabiliscono società di fazioni avverse, come guelfi e ghibellini, buoni e cattivi,
che difendono idee solamente in base alla fazione che li proclama. In questo
scenario, ne escono distrutti i processi di sviluppo collettivo, la sana
dialettica democratica, ma anche il pluralismo socio-economico; si propongono
attività di inteteresse, anche internazionale per volontà di qualcuno o pochi,
ma che non rispecchiano realmente le identità locali, non creano sviluppo -cambi
nella struttura occupazionle, nuovi saperi locali, ecc.- quello che in economia
regionale si chiama un’economia di base capace di attrarre capitali in maniera
permanentemente; sono al massimo animazione territoriale e, quando lo sono,
rimangono nicchie che non riescono a promuovere un cambio strutturale
complessivo. Si instaurano, anche, molte volte equilibri tra gruppi di potere,
odii sociali che dileguano definitivamente la possibilità di una
corrispondenza delle proposte con la società e ciò di cui realmente ha bisogno.
Ciò che manca è una visione di insieme, una visione dove le particolaritá
convergano in progetti comuni, catene di valore coordinate con diversi saperi
e, prima di tutto, idee di grande invergatura che creino sviluppo locale e non
azioni opportuniste o con poco volo... E a tal fine, ci vogliono beni comuni
immateriali, come sicurezza giuridica, dialogo, cooperazione, senso di
responsabilità comune, uscire da se stessi, ... Ci vuole un patto sociale
attorno alle cose che contano capitalizzando i vari sapori sparsi. Perché non
dimentichiamo che la Calabria ha avuto tantissime risorse a disposizione, i
fondi strutturali sono un esempio, ma nonostante questo la struttura
socio-economica non è assolutamente cambiata. È indietro su sanità, imprese e
lavoro, infrastrutture, ecc.. E’ indietro sui diritti alla salute, al lavoro,
alla circolazione, ecc.. aspetti che per definizione devono unire tutti e
ne costituiscono l’identità generale in cui quella individuale ne esce
rafforzata e si alimenta quando vi è reciprocità.
Quindi, le ricette possono essere tante, ma prima di tutto, devono tendere a rompere la frammentazione sociale, come patti di sviluppo locale in paesini collinari e montagnosi; patti per il turismo in quelli costieri; modelli di cordate di paesini sostenibili con poli produttivi altamente ecologici unendo la qualitá delle energie rinnovabili e la produzione di beni a partire dal riciclaggio dei materiali; in altre parole, definire priorità e strategie che responsabilizzino tutti, ecc.. Perchè fino a quando non si rompe il capitale sociale basato sui vincoli di appartenenza nei comportamenti sociali quotidiani, non si potrà mai convergere in un piano di sviluppo locale comune basato sulla forza lavoro e non sulle risorse pubbliche. Perchè il lavoro, la sanità, l’industria, dipendono dalla struttura socio-economica locale e non cadono dal cielo. Sentir dire molte volte che la gente va dall’amico perchè non c’è lavoro, è pericoloso quanto giustificare un circuito vizioso senza porsi la domanda di fondo a monte: perchè non c’è lavoro? Perchè non si investe in Calabria? I calabresi come tutti gli uomini e le donne del mondo hanno talenti ed eccellenze. Ma non c’è lavoro perchè non funziona il contesto socio-istutuzionale ed economico nella sua complessità. È l’intero contesto (politica, Universitá, societá civile, imprese, ecc.) che deve coordinarsi e promuoverli, e se non riesce a farlo qualcosa non funziona nella sua società, perchè l’economia è sempre un fenomeno sociale, non esiste nessun sistema economico senza uomini e donne che si relazionano tra di loro. E per queste ragioni, non esistono ricette applicabili a tutte le società dall’alto. Ognuna ha il suo cammino da fare, ma nessuno è solido se non si fonda sul risveglio e sul protagonismo locale centrato sulla ricerca della propria forza lavoro, contrastando e liberandosi una volta per tutte dal meccanismo dei favori personali che servono solo a riprodurre “clan del potere”.
Per queste ragioni, possiamo anche
dire che, a partire dai tanti sapori, dalle tante individualità di eccellenza,
se si fa un salto di qualitá nel funzionamento del suo capitale sociale, la Calabria
puo’ costruire la sua identitá che l’economia alimenta e viceversa. Se si
inizia un cammino interno, originale, fatto di passi quotidicani, di un’altro
modo di pensare e agire, è possibile sovvertire i segni negativi di quei
settori strategici di interesse regionale. Se non lo fa, continua in circuiti
viziosi come spesso accade quando si risolve un problema, si cerca lavoro, si
accede a un “diritto” in maniera individualistica andando dall’amico o
“potente” di turno (che è un tipico atteggiamento calabrese), e non
intraprendendo cammini corretti o andando dalle istituzioni competenti a dover
dare risposte. Quindi, i cambi dipendono anche e principalmente dai comportamenti
di ognuno di noi, dal “gusto” di ricercare piatti completi e non accontentarsi
di contorni, soluzioni di comodo o momentanee.
Concludendo, forse, possiamo dire che bisogna partire, metaforicamente e
non solo, da ciò che piace “mangiare insieme", piatti completi che
uniscono; partire dalla “pancia” (che significa anche dai problemi reali che ci
toccano da vicino, che ci fanno stare male e gridano una risposta); ma sapendo
ricercare con il cuore e con la testa le ricette (le soluzioni) come comunità
regionale, in manira diretta e semplice come lo è la cucina italiana, una delle
più importanti al mondo, senza cadere nel populismo e nella tentazione di
creare buoni e cattivi. Costruendo, così, quelle reti orizzontali che escono
dalla logica delle fazioni e accomunano i cittadini come quando attorno ad un
tavolo ci si gode le gioie della cucina insieme agli altri commensali, di
qualunque partito o fazione siano. Perché, alla fine, tutti siamo portatori di
un pezzetto di verità sociale che diventa comunità quando si è capaci di
spezzare il pane insieme, ovvero capaci di condividere e costruire insieme. A
questo punto, ora rimane solo da scegliere il vino giusto!
Buon appetito!